DANIELE VITA

"Feeling home...

Tema difficile, se penso agli ultimi anni della mia vita,. Non ho mai trascorso più di un anno nella stessa casa, intervallando sempre a viaggi più o meno lunghi.

Paradossalmente mi trovo a scrivere in questo lunedì da Favara, luogo in cui è nato mio padre, luogo dove in quasi quarantadue anni sono stato poche volte. Le mie origini nascono per metà qui, e le ho sempre rinnegate sino a qualche giorno fa.

Ora mi trovo a Favara per sentire le mie origini e cercare di afferrare qualche immagine da portarmi a casa. Sì, ma quale casa?

A breve svilupperò i rulli, e li riporrò nel mio studio, a breve dovrò trovarmi un nuovo luogo dove riposare le notti. 

Non so bene cosa ho prodotto qui, ma so cosa ho visto. 

Durante questi giorni mi sono sentito in molte occasioni in altri luoghi già vissuti, a Istanbul, in molti luoghi del Maghreb, nella Tuscia che mi ha fatto nascere, nelle zone del terremoto che ho frequentato negli ultimi tempi.

Il mio sentirmi a casa è in ogni luogo e in nessuno, ho provato a sintetizzare con una selezione che andava verso questa direzione, ma il lavoro è ancora poco maturo, ci vorrà altro tempo.

Le case distrutte di Favara mi fanno pensare a quel piccolo rione di case nelle adiacenze della moschea di Suleymaniye a Istanbul, mi ci imbattei per caso un venerdì nell’inverno del 2014 durante un periodo di permanenza nella vecchia Costantinopoli. Era un giorno di festa per i mussulmani, il parcheggio di auto dove ero passato qualche volta nei mesi precedenti era vuoto, sentivo delle voci di bambini, girandomi non vidi nessuno, ma poi piano piano il mio sguardo si acutizzò, vidi uscire dalle case distrutte dei bambini, come dei cani che proteggono il territorio,, mi avvicinai e iniziai a fotografare, lo feci quasi ininterrottamente per altri cinque giorni, fino al giorno in cui partii per ritornare in Italia. Quel rione di case è stato abbandonato dai suoi abitanti turchi, è in via di riqualificazione. Lo hanno occupato delle famiglie scappate dal conflitto siriano e ora vi risiedono. Case senza finestre, così come a Favara, pulite alla meno peggio, luoghi dove sostare in attesa che qualcosa cambi, che un giorno si possa tornare nella propria casa di origine.

Questo oggi il mio sentirmi a casa: avrei potuto scegliere altre storie, ma scelgo questa. Una via di fuga per non raccontare me stesso, oppure una sottile linea che porta affinità con i luoghi e il sostare?".

Daniele Vita (Intro al portfolio "Feeling Home")

Anteprima opere

INTRODUZIONE AL PORTFOLIO

Testo di Pio Tarantini

LA CASA CHE NON C'E' 

Può apparire singolare la scelta di Daniele Vita, fotografo impegnato soprattutto sul fronte della documentazione sociale, nel proporre per il progetto Feeling Home ─ basato sul concetto di legame amorevole con la propria casa in tutte le declinazioni possibili ─ una selezione di fotografie che ritraggono profughi siriani accampati su rovine di vecchi edifici a Istanbul.

I nostri occhi di occidentali privilegiati rispetto alle tragedie degli esodi e delle guerre restano stupefatti davanti alla precarietà delle situazioni di vivibilità che si dispiegano ─ in un non casuale formato panoramico ─ nelle fotografie di Daniele. L’uso di un bianco e nero drammatico, denso, e la larghezza dell’inquadratura accentuano l’aspetto quasi cinematografico, come una serie di set per un racconto di finzione dal sapore neorealistico. Ma sappiamo invece che si tratta di fotografie estremamente aderenti alla realtà visibile e vissuta da migliaia di profughi di questo esodo epocale che sta caratterizzando l’area del Mediterraneo negli anni più recenti.

Una fotografia/verità dunque per quanto può essere possibile applicare a questo procedimento visivo il concetto assoluto di verità: i bambini che giocano tra rovine che richiamano una sorta di Day After fanno riflettere noi spettatori sul senso della vita, del dolore, della morte ma anche sulla forza inesausta del genere umano che tenta e riesce molto spesso a sopravvivere a condizioni estreme.

Daniele Vita è fotografo troppo accorto, sensibile e stilisticamente dotato per non sapere che quando si trattano questi temi il rischio di scivolare nel pietismo è molto alto: ecco allora che le sue fotografie sono partecipi ma anche rigorosamente analitiche. Ci informa con una descrizione di ampio respiro e nello stesso tempo ci fa entrare nelle situazioni, secondo una poetica che si rifà ad alcuni grandi filoni della fotografia di reportage, dai documentaristi americani degli anni Trenta alle visioni più dinamiche e problematiche degli anni cinquanta fino ai più attenti fotografi sociali di oggi, quelli che non si lasciano prendere la mano dall’aspetto estetico ma privilegiano il racconto realistico se pur coniugato secondo una visione originale e intrigante.

Le persone che agiscono in queste inquadrature, come accennavo prima, sono in maggioranza bambini, ragazzini cresciuti troppo in fretta che conoscono da subito il disagio, il sacrificio, il dolore e che tuttavia sono in grado di dominarli, pronti a rivendicare, tra macerie e rovine, la loro porzione di vita e di fanciullezza. Si intuisce, da molti fotogrammi, la familiarità che il fotografo stabilisce con i suoi soggetti: Daniele, quando è possibile, con approccio etico lodevole, stabilisce sempre una comunicazione aperta con le persone che vuole fotografare, partecipa alla loro vita, ne condivide gli aspetti materiali così che questa acquisita familiarità si riscontra nelle sue inquadrature, non retoriche, non distaccate, scevre da impostazioni formalistiche ma, al contrario, intrise di umanità condivisa.

Questo approccio fotografico così delineato, nella sostanza e nella forma, porta a qualche riflessione sempre attuale sul ruolo della fotografia di reportage sociale che pare rivivere nuovi fasti mediatici, alimentati a volte più da manifestazioni ed eventi espositivi che dal fine che dovrebbe essere proprio del genere: la diffusione giornalistica. Penalizzata, questa, dall’informazione in tempo reale dei nuovi media ─ la televisione, la rete telematica ─ pare voler arroccarsi in una nicchia privilegiata in cui l’aspetto estetizzante a volte diventa predominante e determinante, finalizzato ai premi internazionali, ai riconoscimenti museali, al successo infine del fotografo-star.

Daniele Vita appartiene invece a una genìa di fotografi sempre più rari e fuori moda: persona schiva, fautore di una vita spartana, carico di grande umanità e disponibilità verso il prossimo, così come quando ─ nei tragici mesi appena trascorsi, caratterizzati nel nostro Paese dai disastri del terremoto nel centro Italia ─ si è aggirato a lungo tra la gente di quei centri devastati per fare fotografie ma nello stesso tempo per dare una mano, quando era possibile, e stabilire un contatto umano con quella gente così duramente colpita.

Ecco, questo è il suo modo di “sentirsi a casa”.


Biografia

 

 

Daniele Vita nasce a Vetralla nel 1975.

 La sua esperienza fotografica si sviluppa preminentemente e si consolida nel tempo attraverso viaggi di reportage sociale in diversi paesi (tra cui Ecuador, Bulgaria, Algeria e area del Maghreb, ma anche alcune zone del Sud Italia). La sua straordinaria sensibilità alle tematiche sociali più serie riscontrate in questi paesi si unisce ad una capacità particolare di raccogliere nel mondo quotidiano espressioni spontanee di umanità, scampoli di esistenze segnate da un destino non semplice, prospettive non scontate di giovani vite in divenire.  Questa grande capacità di vestirsi di quei mondi con semplicità, rispetto e trasparenza è favorita da soggiorni di convivenza più o meno lunghi nelle terre e nei nuclei familiari di cui ci racconta.

 Di tali esperienze riesce a offrire testimonianza collaborando con diverse riviste di settore Italiane (Foto Cult, Progresso Fotografico e altre ancora), che lo segnalano per servizi fotografici e reportage prevalentemente a sfondo sociale.

Daniele Vita collabora nel corso degli anni (attraverso progetti fotografici diversi) con Unhcr, Anci, Arci, Fratelli Alinari, De Agostini e il Comune di Roma.

Ha collaborato inoltre (e collabora tuttora) con numerose Cooperative sociali e Associazioni (tra cui Coop Alice Lazio e Fondazione Exodus) documentandone fotograficamente le attività e lavorando a progetti speciali realizzati in seno alle stesse Associazioni.

 Nel 2008 vince il primo premio al Toscana Foto Festival e nel 2009 vince il primo premio Sud est Coop e solidarietà. Sempre nel 2009 è finalista al premio Kiwanis, Portfolio Italia.

Nel 2009 e 2010 è finalista al premio Occhi di Scena e nel 2011 è finalista al premio Unicef POY 2011. Nel 2012 vince la borsa di studio Giovanni Tedde grazie ad un reportage su Cojimies, un piccolo villaggio ecuadoriano affacciato sull'Oceano Pacifico.

 Tra le sue esposizioni personali e collettive, si ricordano le mostre presso la Sala Santa Rita a Roma (2006), a San Pier Scheraggio presso gli Uffizi (Firenze) per i fratelli Alinari  (2007), al Fotografia-Festival internazionale di Roma (2008), al Centro italiano per la fotografia d’autore a Bibbiena (2009), al Toscana Foto Festival (2010), al MIA - Milan Image Art Fair (2011) e al Citerna Fotografia (2012), a “Rovine, Roma palazzo Altemps nel 2015, a Castelnuovo di Porto Fotografia nel 2015.

 

PUBBLICAZIONI

 

2009    “Morale della favola”, raccontare la Resistenza oggi

 

               Ed. Purple Press (Roma)

 

2009   “Che qualcuno ascolti che qualcuno sia”

 

               Ed. Editoria e spettacolo (Roma)