Testi di Giusy Tigano (curatrice)
La Mostra fotografica "Feeling Home - Sentirsi a casa" si propone come spunto di riflessione su un tema delicato, universale, estremamente attuale e di grande respiro. Si offre come spazio vivo di un confronto con noi stessi in una cornice di ispirazioni e di stimoli diversi.
Ciascun autore si è concesso di intraprendere questo viaggio delicato e spiazzante attraverso la fotografia, cercando individualmente la propria risposta, o forse solo una risposta possibile. Il percorso espositivo che si è andato componendo, attraverso la realizzazione di 8 "isole" diverse (una per autore), ha generato spontaneamente un parallelismo binario che ha permesso un confronto interessante tra concetti apparentemente opposti, proposti a due a due, che si rivelano essere, alla fine, due sfaccettature diverse di una realtà poliedrica e unitaria. In una prospettiva ancora più ampia, l'idea di 8 isole distinte connesse dallo sforzo di trovare un senso di risposta a un quesito che attiene l'essere umano stesso, dimostra che il concetto del "sentirsi a casa" si presta a molteplici letture e a diverse interpretazioni che finiscono per integrarsi tutte insieme come voci armoniche e complementari di un unico coro.
Spontaneamente, senza alcuna pre-concezione o intenzionalità, si sono individuati i parallelismi interpretativi tra Spaesamento e Identificazione, tra Assenza e Memoria, tra Radici e Evanescenza, tra Realismo e Sogno. Su questi spunti, il percorso emozionale che ci conduce nell'attraversare la grande sala espositiva ci consente passaggi toccanti e rivelatori in ogni isola e in essa ci guida lungo i sentieri percorsi dal fotografo che la "abita" per iniziarci alla ricerca della nostra personale risposta a questo difficile interrogativo.
Alla fine dell'intero percorso espositivo, ci si ritrova soli con se stessi, una sorta di ritorno alla propria "isola personale" alla luce delle diverse voci che abbiamo sentito entrare nelle nostre stanze attraverso i tanti spunti fotografici e letterari. L'augurio è che il percorso non abbia esasperato i vuoti interiori, che abbia piuttosto aiutato ad accettarli, e che abbia valorizzato al contempo lo spazio pieno, il tempo di valore, la ricerca preziosa di significato.
Come sempre, il senso del Viaggio non è la meta, ma la bellezza del percorso: la riscoperta di altre parti di noi con cui cominciare a dialogare, la sensazione di essere stati raggiunti da una possibile risposta che ci descrive, da una lettura che ci assomiglia, da una sensibilità che ha toccato la nostra, da un'emozione che ha saputo sorprenderci. O da più di una di queste cose, ricchezza nuova al nostro bagaglio prima di riprendere il cammino straordinario e solitario verso "casa". La nostra, questa volta.
Giusy Tigano (curatrice)
Il percorso visivo si avvia con la contrapposizione tra il concetto di spaesamento e quello di identificazione, che si toccano come due estremi del medesimo interrogativo nelle prime due isole: "La mia casa dov'è?". Questo interrogativo attiene alla sfera dei luoghi, al contesto fisico-spaziale, ma si identifica al contempo con le nostre storie di vita e con un codice culturale e valoriale entro il quale ciascuno di noi si evolve e conduce la propria esistenza.
Il viaggio comincia con Gianni Maffi e la sua rappresentazione fotografica della metamorfosi profonda che ha interessato Milano nel più recente passato e che ha consegnato al futuro una città molto diversa, solo a stento riconoscibile. Le stupefacenti mutazioni urbane e architettoniche che hanno stravolto il profilo della città negli ultimi decenni sono solo il riflesso di una realtà economica profondamente trasformata e con forte impatto sulla sfera sociale. L'autore affronta il tema da anni con un lavoro di ricerca attento e puntuale, non senza note malinconiche rispetto alla città nella quale è cresciuto e si è formato, la Milano che è stata e non sarà più. Si denuncia implicitamente una società moderna in cui la "trasformazione" è diventata legge di sopravvivenza, ove il cambiamento "necessario" sembra aver scardinato i nostri punti di riferimento e dove l'uomo stenta a riconoscere la propria storia e la propria identità in uno scenario che cambia spesso e velocemente. In questo secondo millennio viviamo un'epoca ove domina un certo senso di SPAESAMENTO che attiene al mondo "fisico", ma anche a quello valoriale, sociale, ambientale, di co-esistenza.
L'isola di Gianni Maffi racconta questo estraniamento, il percorso di "resistenza" emotiva al nuovo che cancella e il tentativo di orientarsi senza perdersi in contesti che non sembrano più appartenerci, che potrebbero averci allontanato "da casa" e coi quali stentiamo a identificarci, ma che allo stesso tempo ci confermano figli di un tempo che cambia e ancora ci appartiene, rispetto al quale siamo invitati a rimetterci in gioco e a creare per noi stessi nuove dimensioni vivibili. Di questo senso di spaesamento è intrisa fortemente la recensione a questo lavoro firmata da Roberto Mutti, nella quale il noto critico fotografico descrive con lodevole esercizio di testimonianza storica le aree cittadine ove queste trasformazioni si sono verificate con effetti di maggiore impatto, richiamando in chiusura l'attenzione sulla necessità di "rallentare" e di concederci spazi di riflessione rispetto alle nostre priorità.
Ed ecco, a seguire, una lettura opposta, una prospettiva inversa che fa da contrappeso a quella di Maffi, una ricerca che non si occupa del denunciato "cambiamento", ma lo elude, non cerca identità nel nuovo scenario, ma si rifugia in quello antico, non accoglie la trasformazione, ma la nega con la fuga.
Luca Barlocci sceglie la via dell'IDENTIFICAZIONE con la propria terra e si concede con la Fotografia di ridisegnare dimora per la propria anima ogni volta che lascia la città. Sulle colline e nelle campagne marchigiane Barlocci ritrova i colori intensi e i profumi della natura, il suo evolversi nelle stagioni, il suo trasformarsi nelle diverse ore del giorno, e riesce magistralmente a rappresentarne l'incanto e la magia.
Le leggi della natura (visibilmente il suo elemento) consentono all'autore di ritrovare un allineamento con l'ordine delle cose e la conferma di una dimensione accettabile e rassicurante in una modernità straniante che genera distacco da se stessi e alienazione. E di questo stato di grazia l'autore racconta realizzando immagini forti, dominate da un bianco e nero fortemente contrastato, accarezzando con lo sguardo le curve morbide della terra coltivata, e i pendii delicati delle colline in fiore, "a raccontare l’amore per le campagne e l’ammirazione per chi ancora resiste, in una terra di mezzo sospesa tra i campi e il cielo", come poeticamente commenta la giornalista Ilaria Baiocchi che ha curato l'introduzione critica a questo vivido portfolio.
Vengono alla memoria le immagini liriche di Mario Giacomelli e il di lui realismo, impossibile non percepirne l'assonanza. Ma la forza della natura qui sembra generare una sorta di "incatenamento emotivo", l'autore sembra abbandonarsi a questo gioco seduttivo, vittima volontaria e consapevole di una forma di piacere rispetto al dato naturale e autentico, che lo fa sentire una cosa sola con la sua terra. E questo rapimento ipnotico sembra prendere anche il fruitore, che - nell'accostarsi alla fotografia di Barlocci - riesce a percepirne l'amore incondizionato e la sensazione impagabile di essere esattamente dove vorrebbe essere, di sentirsi irrinunciabilmente "a casa".
Lungo il percorso espositivo si affaccia a seguire un nuovo dualismo, il contrapporsi di un senso destabilizzante di "assenza" rispetto ad una percezione appagante e rigenerativa legata alla "memoria". Il portfolio in formato panoramico di Daniele Vita descrive le giornate dei profughi siriani fotografati a Istanbul nel 2014.
Attraversando i quartieri e le strade sfatte di questa frazione della città, si percepisce immediatamente un messaggio doloroso e a tratti destabilizzante: l'ASSENZA vera e propria di una casa, lo spazio negato. Queste famiglie vivono di stenti e di espedienti, e a proprio modo si reinventano luoghi propri, e un proprio senso di intimità familiare, una forma "possibile" di esistenza.
Daniele Vita non è nuovo ad esperienze di vita a diretto contatto con le comunità che intende raccontare. I suoi lavori di reportage più toccanti sono stati svolti quasi sempre così, "vivendo" concretamente nella casa delle famiglie o all'interno dei nuclei abitativi che ha poi fotografato, adattandosi a condizioni oggettive difficili e a situazioni e relazioni particolarmente delicate, facendo i conti con la miseria dei luoghi, con i rischi delle circostanze, con le sfide della convivenza, con il caldo e il freddo. Anche in questo frangente Daniele Vita ha convissuto per un po' di tempo con queste persone e ha scelto di rappresentare il "sentirsi a casa" attraverso il loro modo di sentire e di essere, rinunciando al proprio, immedesimandosi totalmente nel ritratto limpido di una geografia tormentata del mondo (attitudine che gli appartiene fortemente).
Queste fotografie sono intrise da un senso di estremo rispetto umano da parte dell'Autore, un ammirevole e onesto distacco: si percepisce al primo sguardo una composta partecipazione, autentica e silenziosa nella cornice di un dramma di grandi proporzioni. In questo viaggio virtuale nel quartiere desolato di Otopark, si supera il pietismo, si va oltre la documentazione sociale, si dimentica ogni regola estetizzante, e si approda senza fermate intermedie alla testimonianza vibrante di storie di vita inserite in contesti di morte. Come scrive Pio Tarantini nella sua toccante recensione a questo meraviglioso portfolio, "i bambini che giocano tra rovine, che richiamano una sorta di Day After, fanno riflettere noi spettatori sul senso della vita, del dolore, della morte ma anche sulla forza inesausta del genere umano che tenta e riesce molto spesso a sopravvivere a condizioni estreme".
Il codice espressivo del formato fotografico più allargato utilizzato dall'autore sembra proprio voler incoraggiare uno sguardo ampio, una più alta consapevolezza, una visuale traboccante di sincero realismo.
In opposizione logica a questo senso dell'assenza, si iscrive l'interpretazione del tema proposta da Pio Tarantini. Il noto fotografo infatti presenta un portfolio improntato - al contrario - a una presenza forte e incancellabile, un richiamo potente e romantico che dura tutta la vita: quello del proprio paese natio.
Tarantini descrive fotograficamente il proprio modo di sentirsi a casa attraverso il racconto del "suo" Salento: la terra nella quale è nato e cresciuto, lo spazio-tempo che rappresenta la sua MEMORIA, il luogo dove ha realizzato le sue prime esperienze anche come fotografo, quel contesto insomma che lo richiama da sempre a "casa" in modo semplice e naturale, come fanno le mamme a sera coi bambini che si attardano in cortile. Un'interpretazione che identifica la casa con il proprio luogo di origine, quindi, che ancora - dopo molti anni - lo rapisce e lo emoziona al ricordo dei paesaggi campestri dai colori accesi, alla presenza di quella luce intensa e magnetica che sembra di poter ritrovare solamente al Sud, o al pensiero di quei disegni fitti di uliveti, cespugli e piante di capperi che costeggiano le strade, fino a raggiungere il mare e il suo immenso mistero.
Durante la sua corposa carriera e le molteplici esperienze di ricerca fotografica, Tarantini ha indagato spesso il paesaggio e le città pugliesi e ne ha offerto nel tempo una visione d'insieme estremamente ricca e poliedrica,. I suoi tanti lavori e le relative pubblicazioni, in prospettiva, testimoniano questo continuo richiamo della propria terra che lo ha accompagnato per tutta la vita e al quale l'Autore si è arreso spesso con serena partecipazione e con estremo entusiasmo, mettendo l'una e l'altro a disposizione del suo estro e del suo talento per disegnare con la fotografia vivaci racconti sempre nuovi, sempre diversi.
In questa selezione, Tarantini ha scelto di rappresentare della sua terra i colori, le case e le colonne di tufo, i casolari, gli uliveti, il mare. Un ritratto a tinte forti, ove la presenza umana è sempre solo accennata con la tecnica del mosso, a lui cara, per accentuare la presenza transitoria dell'uomo e il suo muoversi incerto e non definitivo in una cornice che invece gli sopravviverà ed è e sarà madre di altri figli, casa desiderata per altre famiglie, memoria instancabile di nuove generazioni.
Questa visione della "casa" trabocca d'amore e conserva comunque un velo di nostalgia. La nostalgia sottile di chi la casa l'ha lasciata e, presto o tardi, ne avverte il vuoto, da qualche parte. Tornare "a casa", di tanto in tanto, è un po' un colmare questo vuoto e sentirsi nuovamente centrati su se stessi, in armonia con la propria storia umana e col mondo tutto.
Il tema della terra natìa prosegue col portfolio successivo, dedicato alla città dell'infanzia con un taglio differente, più improntato alle tradizioni, alle radici culturali, alle credenze popolari, al contrasto tra il sacro e il profano. Questo tema delle RADICI e delle tradizioni sposato da Francesco Cito si accompagna per contrasto alla chiave di lettura successiva, improntata soprattutto alla caducità e all'evanescenza.
Francesco Cito ci racconta Napoli, i suoi tratti inconfondibili, le sue contraddizioni e la sua ironia irriverente con un'energia reportagistica sincera e diretta, con il piglio di un figlio che desidera tracciarne un ritratto onesto che tuttavia non pretende di essere esaustivo. Probabilmente l'Autore non si propone nemmeno di "descrivere" i suoi luoghi, semplicemente "prende appunti" con sguardo interessato e bonario, vi si abbandona e se ne lascia attraversare, senza altro fine che - semplicemente - averne esperienza, ancora.
Le vibranti fotografie di questa serie di Cito confermano lo spessore di un professionista il cui sguardo è in grado di arrivare molto oltre l'apparente, anche parecchio lontano dall'ovvio. Al primo impatto ogni fotografia può essere percepita come icona di un aspetto specifico e distintivo della vivace città partenopea, ma ad uno sguardo più attento si palesano a contorno nuovi percorsi visivi, aprendo frontiere di senso alternative e suggestioni inaspettate. E' il caso per esempio della Porta Nolana che si mostra a piena foto nella sua magnificenza rinascimentale, nell'esaltazione del suo valore storico e delle enormi pietre pluricentenarie che la sorreggono: in secondo piano, al netto della suggestione dettata dall'impatto iniziale, si scorge solo in un secondo momento il clochard che spinge lentamente un carrello stracolmo e pesante, la sua "casa" con le ruote, e con tutta la sua vita dentro. Oppure è il caso della sposa che cammina per le strade della città per
giungere in chiesa, lasciando visibile alle sue spalle un "altarino" improvvisato proprio in mezzo al viottolo e dedicato a Maradona, osannato quasi al pari di un Santo. Niente insomma sembra lasciato al caso, niente vuole essere solo ciò che sembra.
Nonostante l'approccio puro e sincero di questo straordinario autore, che per mestiere e passione ha raccontato per molti anni la vita (e la morte) con estremo e determinato realismo attraverso la stampa italiana e internazionale, questo racconto (come succede per diversi altri suoi lavori) pare non volersi esaurire nel visibile e nello scontato. Al contrario, ogni fotografia sembra quasi volerne racchiudere altre, attivando suggestioni ulteriori e interessanti derive di senso che arricchiscono il messaggio.
In una sorta di opposizione a questa lettura si pone un'interpretazione legata invece a luoghi soprattutto interiori, che quasi non hanno legami con ambienti reali circoscrivibili: la "casa" di Carlo Riggi non può essere contestualizzata, non ha indirizzo, non ha meridiani o paralleli, esiste (o non esiste) al di là di ogni geografia. Herman Hesse scriveva "La tua casa è dentro di te. O in nessun luogo". Ci sembra che questo lavoro di ricerca possa descrivere esattamente questo concetto.
La poetica dell'autore sembra ispirarsi al principio dell'EVANESCENZA. Le sue fotografie descrivono esistenze reali o immaginarie, percorsi di vita disgregati, emozioni estemporanee, scenari surreali di vite consumate o solamente immaginate. L'intero portfolio è un'opera d'arte composta da tasselli diversi e complementari, piccole caselle di esistenza fotografate con delicatezza, sensibilità e curiosità, col trasporto intimo di chi si lascia attraversare da un'emozione ed è capace di fotografarla.
Non c'è nulla di didascalico in questo lavoro. I richiami ad un senso di "casa" sono evidenti fino ad essere quasi struggenti, eppure non è possibile rilevare un piglio descrittivo o reportagistico di alcun genere. Nell'insieme ci appare piuttosto come un viaggio fantastico nell'inconscio, una raccolta di segni, di indizi, di tracce di vita o di emozioni consumate da ricomporre per mezzo della fotografia e da portare così ad un livello reale di esistenza e di consapevolezza.
Di fronte a queste fotografie di Riggi si sente molto il bisogno di tempo. Tempo per stare in silenzio. A volte c'è bisogno di tempo e di silenzio per ascoltare una fotografia, solo in questo modo è possibile sentire arrivare libere le emozioni e farsene riempire. Solo così se ne può godere appieno. Queste assonanze spontanee con il proprio mondo interiore, con i ricordi, o con il proprio immaginario, generano facilmente suggestioni particolari, attivando per evocazione nuovi canali emotivi e costringendo lo sguardo a soffermarsi ancora finché ne sia sazio e finché - in un moto libero di volontà che superi la fascinazione - possa finalmente svincolarsi da una dipendenza emotiva stregante.
L'autore sceglie il bianco e nero (sua predilezione linguistica) come codice espressivo, realizzando in diversi casi un gioco vibrante di ombre e di contrasti e modulando la luce in maniera straordinaria, come lo abbiamo visto fare spesso anche in altri lavori.
Nel suo percorso immaginario di ricerca di senso, l'itinerario della mostra approda ora all'ultimo dualismo concettuale: le fotografie di Franco Carlisi, improntate ad una rappresentazione onirica e sfuggente del senso di casa, si vanno a confrontare - al contrario - con la lettura fortemente improntata al realismo quotidiano di Luca Cortese.
Il viaggio di Franco Carlisi disegna un ritorno a casa con pennellate ampie, di grande impatto cromatico, in un avvolgente gioco di contrasto tra colori intensi che si misurano tra loro e danzano in modo ricorrente con il buio della notte. La casa qui si fa atmosfera, contesto intimo condiviso, scambio di attenzioni e dono di sé, anche nei gesti più semplici, in un SOGNO di “casa” che mette l’essere umano al centro. Si respira da vicino il calore delle relazioni tra le persone, quel contatto che sa portare armonia, protezione, intimità. Come scrive Gigliola Foschi nella sua recensione a questo fortunato lavoro di ricerca, "Carlisi non fotografa per descrivere, ma per superare la barriera che lo divide da quanto sta guardando, per infrangere la superficie della realtà ed entrarci dentro".
Il coinvolgimento del fotografo – il quale in altri progetti di successo ha dimostrato una straordinaria capacità di leggere e raccogliere il tratto umano nei suoi dettagli – appare qui molto diverso, votato deliberatamente ad un codice di approssimazione delle forme e di tensione emotiva al fuori fuoco, come se l’unico approccio possibile di fronte all’intensità di certe atmosfere fosse la scelta di un linguaggio sfuggente di non-interferenza. Carlisi entra nella “casa” degli altri in punta di piedi, ciò nonostante è in grado di sentirla vibrare, si specchia nell’intensità delle relazioni umane al punto da sentirsene avvolto, ma sceglie infine di non invaderne lo spazio, di sottrarre in ogni modo la propria estranea presenza, e di consegnare i dettagli del tempo vissuto solo alla memoria intima dei suoi soggetti. Di qui il mosso, lo sfocato, il buio...
Il quadro d’insieme sembra attingere alla dimensione onirica, portando alla luce elementi visivi reali come punto di riferimento (una finestra, un cavallo, una lampadina) e lasciando a contorno uno spazio emozionale potenzialmente infinito nel quale ritrovare o costruire memorie, sogni e percorsi immaginari.
La presenza dominante della notte, che fa quasi sempre da contrappunto alla luce vivida dei corpi, delle case, o delle finestre illuminate, sembra esaltare ancora di più il concetto di "vicinanza", il potere intenso e generativo del contatto e dello scambio. La casa è lo spazio umano, trovarla il viaggio, sentirla addosso e poterla condividere il sogno.
Diversamente, nel registro più vicino possibile al REALISMO portato al suo estremo espressivo, si attesta invece l'interpretazione poetica di Luca Cortese, che si concentra su una ricerca puntuale e diretta di tracce di vita raccolte dentro le mura di una quotidianità consumata.
L'autore indaga la casa nella sua accezione più familiare e più intima, raccontando i di "lei" ambienti e dettagli a tradire la presenza di chi la abita, iscrivendo con precisione la propria lettura nella cornice della nostra civiltà occidentale e del nostro secolo. La "casa qui e adesso" si rivela nella gestualità, nelle abitudini e nell'espressività di chi la abita attraverso immagini rubate all'ordinarietà, prediligendo una forte contestualizzazione e un'invasione del campo personale e intimo.
La "casa" si rivela espressione autentica delle persone che ci vivono, le racconta attraverso un gioco di indizi e di rimandi, ne ritrae nello spazio attraverso il suo ordine o il suo disordine, attraverso gli oggetti e i rituali quotidiani, tracce vive di un vissuto reale. E in questa dimensione il tempo sembra sospeso.
Dal punto di vista del linguaggio, Cortese sfugge volontariamente il rigore del fuoco perfetto e del formalismo delle inquadrature, privilegiando invece il micro-mosso, il leggermente sfocato, la composizione imperfetta, per riprodurre - nel modo più naturale e sincero possibile - lo sguardo umano, spesso superficiale e fugace, soprattutto verso ciò che gli è "noto". Con un treno incalzante di fotogrammi che ricordano lo stile estemporaneo delle vecchie Polaroid rubate in tempo reale, l'autore propone così una visione scentrata, laterale, quasi distratta, come raccolta per caso.
Una lettura apparentemente "semplice", ma dal significato importante. Un "pensare per immagini" che ci ricorda la spontaneità disarmante e potente con cui Luigi Ghirri dipingeva con la fotografia il "quotidiano", il dato evidente, suggerendo al contempo in maniera cifrata un senso latente e il collegamento implicito alla memoria e alla ricerca identitaria. Al pari, a suo modo, attingendo al dato ordinario Cortese sembra mostrarci squarci di vita immediatamente percepibili all'occhio comune, ma - proprio per questo, proprio perchè "scontati" - non immediatamente leggibili. E ci conferma con la fotografia che il nostro viaggio verso casa si compie di continuo sotto i nostri occhi e in realtà non si interrompe mai. Ogni giorno, inconsapevolmente, quel viaggio interiore nei nostri luoghi noti, nella nostra "comfort zone" (area di confidenza) sembra allontanare il nostro senso di solitudine e di precarietà tracciando per noi un percorso "sicuro" e rassicurante di abitudini e di riti che si riproducono nel tempo e nello spazio. E, se siamo fortunati, questo viaggio ci regala la forza aggregante, appagante e straordinaria della condivisione della nostra "casa" (non solamente quella "fisica") con le persone a noi vicine, con le quali saturiamo di senso le nostre stesse esistenze.
Estratto della Recensione alla mostra di Giusy Tigano (curatrice)